Mirijam Heiler. Se queste piante potessero parlare

Uno dei filoni tematici di ricerca contemporanea che allo stesso tempo affascina e inquieta le giovani generazioni sembra essere quello relativo al superamento radicale di una visione strettamente umanistica. Un pensiero, quello del post-human, che, per la verità è stato tracciato da tempo ma che, negli ultimi anni, dopo il tentativo di de-costruire o almeno cominciare e vedere in prospettiva i dogmi sociali dell’uomo bianco occidentale, si rivolge con sempre più attenzione a tutti gli enti della natura, suggerendo una concezione inter-specifica della realtà dove l’essere umano non è più centro del creato ma si relaziona orizzontalmente con gli altri organismi. Queste riflessioni non sono poi solo spese come semplice mezzo per una considerazione sostenibile e rispettosa della natura ma aprono anche il campo a “utopie possibili” di ibridazione che – dopo l’uomo-cyborg – vedono incrociarsi con pari dignità organismi appartenenti a famiglie, regni e specie diverse, creando un’osmosi circolare tra animali, vegetali, funghi, minerali e quant’altro.
Sembra essere questa la nuova frontiera del pensiero occidentale, sviluppata negli ultimi decenni dai saggi di Donna Haraway, e, contemporaneamente, il nuovo banco di prova della tracotanza umana, che dopo aver cercato di modificare il proprio corpo per migliorarlo con la chirurgia estetica e la tecnologia, ora sogna nuove frontiere per l’esistenza al di là dei limiti biologici e di specie consegnatici alla nascita.
Recuperando un immaginario tra laboratorio scientifico e mito (se ci pensiamo i mostri mitologici sono i primi esempi di questa visione), Mirijam Heiler presenta, con grande naturalezza, espressioni artistiche di un mondo futuro in cui la rivoluzione inter-specifica si è già affermata. Grandi quadri segnati da una delicata poesia visiva fanno da quinte a una strana forma che emerge dalla parete, frutto di un crossover dal simbolismo legato alla fertilità che unisce il profilo osseo di un bacino femminile con la corolla di un’orchidea. Se questa scultura tematizza esplicitamente un contesto, suadente ma anche spaventoso, in cui l’umanità può mescolare la sua struttura scheletrica con quella dei petali di un fiore, nei lavori pittorici l’effrazione al canone umanista è ancora più netta anche se apparentemente rassicurante alla vista. Sui due pannelli si dipana infatti una scrittura dal titolo e dallo sviluppo per noi illeggibili che, utilizzando aghi di pino come caratteri tra il cuneiforme e l’ideogramma, riesce a dare voce a un silenzioso linguaggio delle piante. In questo domani che sembra lambire con le sue immagini le riflessioni dell’oggi, anche gli alberi avranno un proprio linguaggio strutturato e una propria scrittura, che ora possiamo solo ammirare astrattamente nell’andamento armonico, come fosse testimonianza di una civiltà antica o aliena.
L’installazione di Mirijam Heiler, attraverso il linguaggio plastico e il recupero delle ricerche verbo-visuali anni Sessanta, mostra un mondo dove anche l’idea dell’Homodeus – dell’uomo che supera se stesso tentando di diventare Dio – smette di avere senso perché anch’essa destrutturata all’interno di un pensiero in cui l’essere umano non si distingue più dal resto del vivente.

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